D’argilla e neve di Maria Pina Ciancio: una silloge che racconta la Basilicata
“Ritorno nella mia isola del sud/ A ogni chilometro che
si riduce/ un’arrendevole quiete/ ferocemente si espande/ Ciò che temo di me/ è
questa fragilità/ ogni volta rinnovata/ lo spavento dei nidi scoperchiati/
l’osso spolpato nella neve/ la riduzione già saputa/ della vita” ‒ Maria
Pina Ciancio
Abisso e quiete.
Come può l’abisso che richiama un concetto comunemente considerato sfavorevole esser accostato alla quiete che, invece, evoca lo stato mentale che i più bramano ma che pochi hanno la possibilità di conoscere?
Eppure l’abisso è connesso alla quiete, se la torre che si erge verso l’alto rappresenta simbolicamente la necessità umana di infinito, di luce e di silenzio; l’abisso non può che essere il suo corrispondente contrario, un pozzo che sprofonda verso l’interno, nell’oscurità del caos. Infatti, soltanto con l’attenta introspezione ‒ successiva all’immersione nel flusso ‒ il poeta trova una via unica, la propria.Ciò avviene con la silloge “D’argilla e neve” (Giuliano
Ladolfi Editore, 2023), titolo che propone il basso e l’alto, la terra ed il
cielo, il pozzo e la torre. L’autrice, la poetessa lucana Maria Pina Ciancio,
sin dall’incipit ‒ in una sorta di nota ‒, si confida con il lettore: “Questi
versi nascono urgenti e necessari/ dentro i luoghi dell'appartenenza.”
“Avevo sette anni e un sogno:/ quello della terra rossa
dentro al petto/ Arrivammo con la Calabro-Lucana ch’era maggio […]”
La Lucania ‒ la Basilicata ‒ è il luogo di appartenenza;
poco oltre nella lirica la ferrovia Calabro-Lucana viene contrapposta a “La
Svizzera lontana”, il luogo di partenza. La condizione di essere figli
di emigrati, di nascere in un Paese differente rispetto a quello della tradizione
genitoriale crea un conflitto che dirige verso una prossimità desiderata ed
innata ‒ la “terra rossa dentro il petto” ‒ trasmessa dagli stessi
genitori che hanno scelto ‒ per urgenza e necessità ‒ la via dell’emigrazione.
Questo aspetto di scontro/incontro culturale è sottolineato nella prefazione
di Andrea Di Consoli: “Si parla della Svizzera, Paese dove
entrambi abbiamo avuto la sorte di vivere in quanto figli di emigrati.”
“D’argilla e neve” è suddiviso in quattro parti: la prima dà il titolo alla silloge, segue “Andata e ritorno senza traccia”, “Il riparo della neve” e “Cinque poesie in dialetto lucano”, quest’ultimo compare in copertina come sottotitolo. Nella scelta del titolo e sottotitolo e nella composizione delle parti si intravede netta l’esigenza del cerchio che richiama ancora una volta la simbologia dell’abisso e della quiete, del pozzo e della torre, della ricerca interiore per assimilare la realtà esteriore: un percorso atto all’udir il canto per poi esplorare il foglio, grattandolo con la penna, sino all’istante in cui tutto tace.
“Insegnami la casa/ l’audacia del vento/ l’acqua del
torrente che indugia tra i sassi/ […]”
Nei luoghi interiori la misura del tempo perde valore
e la ricerca della propria identità, intesa sia come ricerca del Sé sia come
riappropriazione delle proprie radici, diventa basilare.
Nell’imago anche lo spazio, similmente al
tempo, si dilata e “La Svizzera lontana” compare nuovamente ma in
contrapposizione ad un’appartenenza materiale: “i pomodori già maturi dell’orto”.
Il lettore, inoltre, scorgerà altre suggestioni con le quali
confrontarsi: ricordi di infanzia ed affetti familiari (“P’m’ scippá
stu mali i capi/ mamma meja jetta acqua e sale/ pa’ finestra/ e pu mi stringe u
core/ […]” ‒ “Per strapparmi questo mal di testa/ mia madre getta acqua e sale/
dalla finestra/ e poi mi stringe il cuore/ […]”), la problematica dello
spopolamento dei piccoli centri urbani non solo per il fenomeno
dell’emigrazione ma anche per le crepe della terra (“[…] Quella che tiene e quella
che frana e cede sotto i passi e spacca in due il paese e gli incroci troppo
stretti della vita. Qui, sull’orlo slabbrato della crepa ho incontrato facce e
sguardi che dicevano di affanni e di paure. Di abbandoni e silenzi millenari.
[…]”), il bisogno di tradizione in un mondo tecnologico che avanza
repentino e spoglio della nozione di sincretismo (“[…] Tutto passa e accade
come sempre/ come ogni sera/ la mollica masticata sulla panca/ il fuoco che si
abbassa/ il fazzoletto largo stretto in testa/ la vita che si arrende al sonno
e trema// […]”).
In chiusura Maria Pina Ciancio dedica “D’argilla e di neve” al
padre “che in questo periodo di resistenza alla malattia/ ha ridato luce
ai ricordi/ e alla memoria collettiva/ di un paese”. Un resistere donato alla
figlia mentre cercava “impaziente una zolla da amare” nell’Altrove.
Maria Pina Ciancio è nata a Winterthur in Svizzera
nel 1965. Ha lavorato per svariati anni come insegnante a Chiaramonte in
Basilicata, recentemente si è trasferita a Roma nella zona dei Castelli Romani.
Ha pubblicato testi che spaziano dalla poesia alla narrativa e saggistica,
vincendo importanti premi letterari. Ha fatto parte di diverse giurie
letterarie ed è Presidente in svariati cataloghi e riviste di settore; dal 2007
è presidente dell’Associazione Culturale LucaniArt. Tra le sue pubblicazioni si
ricorda: La mongolfiera azzurra (I fiori di campo, 2002); La ragazza
con la valigia (LietoColle, 2008); Storie minime e una poesia per Rocco
Scotellaro (Fara, 2009); Tre fili d’attesa (plaquette d’arte a cura
dell’Associazione LucaniArt, 2022).
Written by Alessia Mocci
Info
Sito autrice https://cianciomariapina.wordpress.com/
Sito LucaniArt https://lucaniart.wordpress.com/
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