Aspettando la notte del premio David di Donatello in compagnia del giovane regista Mario Coco
Ciao Mario, grazie del tempo che ci
dedichi. Aspettando la notte del premio David di Donatello. Ci fai da guida a
questo importantissimo premio cinematografico?
Mario
Coco: Grazie a voi. E' sempre bello rispondere a domande
intelligenti e piacevoli. Il David di Donatello, come saprete, è il premio
cinematografico più importante che esista in Italia. Il modo migliore per farvi
da guida credo sia tornare al glorioso Cinema Fiamma di Roma e al Teatro Antico
di Taormina in tempi a noi lontani, in cui l'industria cinematografica italiana
navigava nell'oro. Questo non significa che i premi, rivisti con gli occhi di
oggi, fossero insindacabili, anche perché vigeva un pensiero critico rigido e
spesso assurdo, a causa del quale, per esempio, un grande come Totò non venne
mai insignito del David. Però chi, come me, ama visceralmente il cinema, non
può non emozionarsi pensando a tanti nomi premiati nei primi decenni, quali
Mario Monicelli, Vittorio De Sica, Pietro Germi, Elio Petri e gli immancabili
Fellini e Visconti. Nonostante questo, gli anni più interessanti vanno secondo
me dalla seconda metà degli anni '70 alla prima degli anni '90, perché in quel
periodo è percepibile un curioso passaggio di consegne, da anziani cineasti
come Lattuada e Fellini alle nuove leve. Riguardare le registrazioni è un
trionfo di emozioni. Su quei palcoscenici era possibile ammirare chiunque, da
Morricone ad Edwige Fenech, da Burt Lancaster a Gabriele Ferzetti, da Luciano
Tovoli a Liz Taylor, da Cecchi Gori a Giuliano Gemma, da Jodie Foster a
Mastroianni. Erano anni pazzeschi, in cui, dietro la cerimonia, succedeva di
tutto. Capitava che un gruppo di attori disertasse i David, inventandosi
impegni inesistenti in Francia, oppure che qualche star scappasse a metà
cerimonia. Alla base c'era comunque un cinema di grande qualità. Credo che gli
eventi che segnarono il passaggio ad un modo diverso di assegnare il premio
siano stati il David del 1981 a Troisi (quello dato a Celentano l'anno prima
non ebbe la stessa risonanza), quello del 1982 a "Borotalco" di
Verdone e quello sacrosanto, dello stesso anno, alla splendida Eleonora Giorgi.
Da lì in poi cominciarono a vincere non solo i soliti grandi nomi, ma anche artisti
più giovani come Montesano e Nuti. Fino a pochi anni prima era difficile che
questo potesse accadere. Un altro David che considero sacrosanto è quello del
1990 all'indimenticabile ed adorabile maestro Paolo Villaggio per "La Voce
della Luna". Ritengo, inoltre, che l'edizione più bella in assoluto sia
proprio quella presentata da lui e da Simona Marchini a Cinecittà nel 1991, in
cui la sua imprevedibilità e la sua incredibile intelligenza contrastavano ogni
tipica ed ignobile sovrastruttura della nostra cinematografia. Arrivando ai
giorni nostri, credo che il David di Donatello conservi il proprio fascino. A
scarseggiare è più che altro l'essenza di alcuni film in concorso, ma ci
troviamo in un periodo storico in cui il cinema, essendosi lievemente ripreso,
sta cercando nuove strade da seguire e quindi il concetto di film si è
decisamente imbastardito. Trovo ottima la scelta, da due anni a questa parte,
di svolgere la serata all'interno degli ex stabilimenti De Paolis di via
Tiburtina, perché è bello rendere onore anche ai luoghi topici della settima
arte. Come al solito, le aspettative per la prossima cerimonia sono parecchie.
C'è chi vincerà, chi no. L'importante, secondo me, è continuare a far bene il
cinema. Il divismo esiste ed oggi è più esasperato che mai, ma un premio serve
innanzitutto da motore per il nostro futuro. L'arte ha bisogno di cura e
d'amore e, personalmente, cerco di sperare sempre in positivo per quello che
riguarda il cinema.
Ultimamente ti abbiamo visto in tantissime apparizioni
in tv. Raccontaci un po’ delle tue esperienze in tv.
Mario
Coco: Devo dire che parlare delle mie apparizioni
televisive suscita in me una particolare emozione. In fin dei conti provengo
dalla strada, o, meglio, dai gradini e dal marciapiede della casa di mia nonna,
a Piedimonte Etneo, dove da bambino sperimentavo i primi sketch. Trovarmi, anni
dopo, catapultato nel mondo televisivo quasi mi commuove. Immagino che i miei
interventi che destano maggior curiosità siano quelli più recenti, ma ci tengo
a ricordare sempre con piacere il periodo di "Meraviglioso",
trasmissione ideata da Salvo La Rosa e Francesco Grasso, in cui ho avuto
l'onore di stare accanto a Francesco Scimemi. Grazie a lui ho appreso degli
aspetti fondamentali che porto tutt'ora con me nel modo di affrontare la scena.
Francesco è un vero e proprio universo, affascinante ed insuperabile.
Un'apparizione televisiva alla quale tengo tantissimo è senza dubbio quella in
cui interpreto Sgarbi a "Dopo Fiction", insieme al mio maestro Nino
Frassica. A Nino devo seriamente parte della mia vita ed il fatto che mi abbia
coinvolto è un onore incredibile. Un altro momento simpatico è il siparietto di
mentalismo nella scorsa edizione di "Domenica In" con il leggendario
Pippo Baudo. Credo di saper gestire discretamente le mie emozioni sulla scena,
ma in quella occasione, trovandomi faccia a faccia con Pippo Baudo, vestito da
Pippo Baudo, in un contesto alla Pippo Baudo, la domenica pomeriggio, ho
sentito le mie gambe tremare in un modo abbastanza inquietante. A
"Domenica In", nonostante le ingiuste polemiche, si continua a
respirare un'aria di grande familiarità. Sono particolarmente affezionato alla
produttrice Blanda Freni, una persona davvero adorabile, alla quale voglio bene
come una zia. Tornando alla lista delle mie esperienze televisive, credo che la
più bella sia quella estiva a "Stracult" su Rai 2. La televisione di
Marco Giusti è un mondo a sé, in cui un declamatore di odi ha una propria
logica. Per me è stato bellissimo aver partecipato in mezzo a compagni
d'avventura straordinari, introducendo un'autentica dea, qual è Eleonora
Giorgi. Sono contento di stare a contatto con gli autori e con il regista che
considero miei maestri di vita. C'è chi, quando si trova a Roma, va a visitare
monumenti e piazze. Io, invece, amo stare con loro al montaggio. Vorrei inoltre
annoverare un'altra apparizione alla quale tengo, che però non è avvenuta in
televisione, ma su Radio 1 a "FuoriGioco", insieme alla meravigliosa
Rosanna Sferrazza. Con tutte queste apparizioni, a volte mi sembra di essere un
santo. In realtà non sono altro che un corpo scappato via da un cartoon di Tex
Avery, che però in televisione si sente a proprio agio. A me non piace chi si
lamenta del mondo dello spettacolo. Viviamo in una quotidianità sempre più
complessa. Vuoi mettere il calore che si prova quando per due orette ti senti
coccolato e, soprattutto, calcolato?
Uno sguardo al passato e uno al futuro. Mi
riferisco ai tuoi progetti cinematografici passati e dei progetti che sono in
atto di realizzazione o in previsione per il futuro. Ci fai un riepilogo di
quello che hai realizzato e di quello che stai realizzando?
Mario
Coco: Qui si apre un ampio capitolo di me stesso. Devi
sapere che il cinema indipendente per me è qualcosa di fisiologico. Sento il
bisogno di esprimermi
attraverso una storia ed attraverso le immagini, e l'ho
sempre fatto con una certa umiltà. Ricordo i primi progetti con tenerezza e con
gratitudine verso coloro che hanno partecipato. Forse sono più affezionato a
"Povera Italia". Nonostante l'idea di girare su nastro magnetico nel
2014 fosse decisamente folle, l'atmosfera paesana e siciliana era tutto sommato
genuina. Devo dire di essermi sorpreso quando, mentre l'anno scorso stavo
girando un film a Messina, il padrone dei teatri di posa mi disse di aver visto
il mio lavoro grazie ad un'allucinante copia "pirata" che circolava
nell'estate del 2015. In "Due di Passaggio" ci sono delle cose che mi
piacciono e mi divertono ed altre che proprio non sopporto, forse perché dietro
si cela una lavorazione sofferta e complicata. Alcune scene nascevano da situazioni
disperate. Oggi, invece, sono contento di aver girato il mio nuovo
cortometraggio "Cipria e Caffè" in perfetta armonia. A condividere la
scena con me sono Domizia Russo e Martina Massimino, due ragazze meravigliose,
che ammiro e alle quali sono profondamente grato. Le musiche originali sono
opera del grande Attilio Pace, artista eccezionale ed amico a cui voglio un
mondo di bene. Alcuni ritengono che questo corto sia un modo per far emergere
la psicologia disillusa dei cinematografari. Forse è vero, ma io ho voluto
innanzitutto esprimere una certa incomunicabilità uomo-donna. Per questo trovo
l'apporto di Domizia e di Martina fondamentale. Abbiamo parlato parecchio dei
loro personaggi prima di girare e le ho rese partecipi alla costruzione dei
dialoghi e dei dettagli generazionali, anche perché amo confrontarmi con il
prossimo. Sono abbastanza soddisfatto di questo progetto. Nel mio futuro c'è
sicuramente tanta voglia di apprendere e di approfondire la mia principale
passione, sperando di poterla perseguire in modo più esteso. L'esperienza e la
fatica, del resto, sono fondamentali. Nel frattempo, prossimamente, potrete
vedermi in compagnia di Elio Sofia in "Cìmena", il nuovo, originale
ed intelligente film di Salvo Spoto e Dario Formica, al quale ho partecipato
con gioia. Per quanto riguarda i progetti indipendenti, continuo a scrivere e
ad ideare nuove sceneggiature, anche se noto che in questo periodo il cinema
indie viene fortemente attaccato. Secondo me, alla base di tutto c'è la
personalità di chi crea qualcosa. Le opere presuntuose pullulano, è vero, ma
c'è anche chi svolge il tutto con sincera passione. Siamo poi sicuri che il
cinema standard, oggi, sia totalmente esente da una certa poesia del male?
Quest'anno, alla Festa del Cinema di Roma ho visto cose e situazioni
inimmaginabili. In una delle serate, mentre mi accingevo a tornare
dall'Auditorium a piedi, mi sono trovato sullo stesso marciapiede con un uomo
di mezz'età che ha iniziato ad urlare, a fissarmi e ad accelerare il passo. Io,
spaventato, ho iniziato a sudare e, vigliaccamente, mi sono nascosto dentro un
bar. Ho poi scoperto che si trattava di un noto generico capitolino che si
imbuca in qualsiasi festa ed usa questi atteggiamenti strani per promuoversi
nel mondo del cinema. Nonostante tutto, continuo ad essere fiducioso nella
ripresa di questa grande arte.
Caro Mario, curiosando sul web ho visto che
hai un corto in concorso al Premio David di Donatello. Ci confermi la notizia?
Quanto reputi importante per un regista avere in concorso un proprio film,
quindi una sua creazione presente a un concorso cinematografico?
Mario Coco: Sì, è vero. Non posso nasconderlo. "Cipria e Caffè"
si trova in mezzo alla quantità infinita di cortometraggi in gara quest'anno.
La tua domanda è molto interessante. Credo che partecipare ad un concorso
significhi in generale confrontarsi con gli altri e questo è fondamentale. Una
volta mi è capitato, in un festival, di comprendere alcuni errori guardando,
dopo il mio, un bel cortometraggio con Stefano Sarcinelli protagonista. Io
cerco costantemente un confronto. Ecco perché trovo che anni di spettacolini in
lungo e in largo per la Sicilia siano una palestra. Nelle piazze il pubblico è
spietato. Se non li fai ridere sono capaci pure di lapidarti. Se la serata
riesce, magari rimedi un panino con la salsiccia, altrimenti neanche quello. Il
cinema, invece, è diverso. C'è da dire che ai festival più rilevanti si dà,
giustamente, spazio a progetti di maggior presa sugli spettatori. Sono contento
che il mio corto si trovi negli archivi del CNC di Torino. Spero che i miei
teleobiettivi notturni sulla costa ionica siano apprezzabili anche in una città
così nordica. Il resto lo fanno poi le proiezioni nelle piccole rassegne, nei
cineclub, ma soprattutto il passaparola dei bambini. Le mie follie piacciono
stranamente agli infanti, forse perché hanno una capacità di immedesimazione
migliore. Questo sfocia poi negli scambi di dvd. In fondo il mio è cinema di
contrabbando ed è proprio dai cinefili che si riceve qualche complimento. Il
parere più bello l'ho ricevuto, però, dal maestro Nicola Vicidomini. Un suo
commento per me vale più di qualunque premio. Il grande Cosimo Cinieri dice che
Nicola è il teatro ed ha ragione. E' uno degli ultimi romantici, impeccabile e
senza nessuna sovrastruttura. Il fatto che mi faccia riflettere e che mi dia
dei consigli lo rende soprattutto un grande uomo. Credo di aver fatto la
passeggiata più bella di sempre insieme lui di corsa a Palermo, mentre stava
perdendo l'aereo. Un'altra persona con cui amo confrontarmi è Mary Di Tommaso.
Tutti gli Statale 66 sono grandiosi, ma lei è pure una grandissima attrice, per
me la più grande di tutte. L'avete mai vista recitare? Io vado in estasi. Non
esagero se dico che Mary è la persona alla quale voglio più bene in assoluto.
Tornando a premi e concorsi, ritengo che siano vetrine eccellenti, quando
vengono organizzati bene. "Vetrina" ha un doppio significato, perché
riguarda anche il voler apparire, che personalmente odio. A me interessa
principalmente che chi guarda un mio lavoretto si diverta. Rimango del parere
che l'autocompiacimento e la comodità facciano male ad un artista. Klaus
Kinski, per esempio, era uno che da giovane ha attraversato tutta la Polonia a
piedi. Ben venga il David di Donatello, ma speriamo anche in una grande ripresa
del cinema in quanto poesia.
Grazie del tempo che gentilmente ci hai dedicato
Rosario Tomarchio
Commenti
Posta un commento